IMMAGINI DELLE OPERE

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15 luglio 1933, ore quattro pomeridiane. Nelle sale interne del cafè Excelsior di Santa Maria in Magdalena si inaugura una mostra di caricature: volti abnormi su corpi esili, efficaci silhouettes sinuose che suggeriscono movimenti e balzi di corpi scattanti. I volti sono resi eloquenti dalla posa di tre quarti che permette di tracciare sia il profilo che lo sguardo. L’attenzione è portata su pochi elementi: naso, mento, incavo orbitale, taglio della mascella, come vuole la tradizione del disegno caricaturale. Si intuisce il talento e la capacità di leggere i tratti peculiari di una fisionomia. Le caricature suscitano interesse, i commenti sono positivi, molti e calorosi gli incoraggiamenti al giovane artista Leonet Matiz, diciottenne “impertinente y oenciclopedico” secondo le parole di un giornalista del El Estado, le orecchie a sventola, il sorriso smagliante, e l’occhio “gitano”. Comincia qui la lunga vicenda che porterà Leo Matiz a vivere una vita nomade e avventurosa, dapprima nei paesi dell’America latina, e, più tardi, nel mondo, in un andirivieni che sarà il suo apprendistato visivo. Dalla caricatura il passo è breve verso la cinepresa e la macchina fotografica. Nel 1938 Leo Matiz è un giovane uomo famoso quando esce “Santa Fé” una rivista dall’impaginato grafico rivoluzionario per la quale collaborano gli artisti e gli intellettuali più conosciuti. Gli viene affidata la direzione grafica e la parte illustrativa che comprende fotografie e disegni. Leo Matiz comincia a dedicarsi alla fotografia, forse per caso, forse per una committenza, ma non vi è dubbio che il fotografo nasce dal lapis e dal foglio bianco. Inizia a ritrarre vecchi indios dai visi solcati dalle rughe e visi lisci e impenetrabili della giovinezza: lo sguardo è catturato e appeso all’immagine di ciò che non è lì. L’interpretazione è sempre evidente nella ritrattistica, i volti ripresi dal basso sono una delle sue peculiarità, la ripresa ravvicinata permette di ottenere le distorsioni che più si avvicinano alle modalità caricaturali del primo Matiz. Durante gli anni quaranta è fondamentale la “tappa messicana”, esperienza durante la quale lavora con Gabriel Figuerosa e Manuel Alvarez Bravo e si accosta al mondo pittorico di Diego Rivera. È inevitabile l’incontro con Frida Kahlo. L’interesse di Matiz si concentra questa volta sullo “stato d’animo” della tormentata pittrice, impresso nell’immagine fotografica con estrema naturalezza. “La passione di Frida” è il fil rouge “delle numerose fotografie scattate ad una donna il cui carattere, la cui determinazione, nonostante il corpo deturpato da un terribile incidente, si mo­strano con grande evidenza espressiva del volto e nella soffe­renza che, contemporaneamente traspare”, da questa intui­zione critica di Serena Oliveri, riportata nel testo del catalogo della mostra su Leo Matiz “l’eloquenza del silenzio” tenutasi a Melbourne nel 2005, è tratto il tema di questa mostra dedicata al grande fotografo. Leo Matiz è riuscito a far emergere la conflittualità interiore di Frida, una dolcezza che è allo stesso tempo “indurita” dalla sofferenza fisica: i suoi tratti somatici e la sua espressività diventano lo specchio di quell’animo ribelle, inquieto, lacerato dalle sofferenze, ma mai renitente. Di Frida sono colti i diversi attimi di un movimento, di una posa. Fotografie apparentemente uguali mostrano, spesso, la consequenzialità di una circostanza, come se fossero dei fotogrammi. Anche qui la natura penetra nella fotografia, partecipando dello stato d’animo della protagonista, anche solo attraverso un’ombra, una foglia, un paesaggio che si intravede attraverso delle finestre. Il percorso espositivo della mostra è fedele alle scelte di Leo Matiz nell’impostare il suo reportage, egli ha proposto il personaggio partendo da un primo piano, da un mezzo busto, da un intero, con o senza ambientazione scenografica, per passare poi allo studio della pittrice. Un quadro, le tavolozze, i colori, la luce, e quegli elementi che personalizzano l’ambientazione dello studio di Frida: uno specchio e la sedia a rotelle, entrambi strumenti indispensabili al suo lavoro. Frida e Diego Rivera, Frida nella “casa blu”, Frida ed i suoi allievi. Nell’ambito di una serie di foto che vedono Frida come soggetto, anche la “rappresentazione” dell’ambiente in cui ella trascorse gran parte della sua vita è suggestiva. E qui la fotografia diventa lo strumento tramite il quale Matiz fa percepire la presenza di questa donna anche quando non la si vede direttamente fotografata, quindi la presenza-assenza di Frida, il suo silenzio, la sua ribellione, la sua fermezza, l’ostinazione e l’istintività che confluiscono nell’istantaneità degli scatti. Paolo Minacori

Leo Matiz e Frida Kahlo - (dal testo in catalogo La Passione di Frida)

Matiz dalla sua prospettiva ravvicinata e privilegiata, traccia un ritratto intimo dell’amica Frida. Tuttavia non deve trarci in inganno il significato documentativo di questi ritratti. Nella terra di Pirandello sappiamo bene come la dissimulazione del volto e dell’animo siano implicite nelle cautele del genere umano. Il ritratto fotografico è il frutto di un incontro tra il fotografo e il fotografato. L’emozione che genera deriva simmetricamente dalla personalità del soggetto ripreso e dall’intensità dello sguardo che ha saputo coglierla. Ora, ritrarre personalità forti come quella di Frida Kahlo può annichilire il contributo del fotografo e portare a una sorta di “ritratto su delega”, una specie di variante dell’autoritratto. Cioè, a una rappresentazione suggerita dal soggetto che mostra come vorrebbe essere e non come è realmente. D’altro canto, il fotografo nel ritratto introduce, attraverso la selezione del suo sguardo, un giudizio che non è necessariamente più vero di quello proposto da chi si mette in posa. E invero, nello specifico, non possiamo guardare a questi ritratti di Kahlo senza considerare che si tratta di fotografie di Matiz. La personalità del fotografo non soccombe a quella della pittrice e Matiz non rinuncia, con la scelta dell’inquadratura e della luce, a parlarci di sé: della sua formazione, delle sue predilezioni e delle sue idiosincrasie. D’altro canto, che cosa è il gesto del fotografo risolto in un istante, se non la sintesi della sua cultura? L’incontro fra i due avviene al livello più alto dove il fotografo sa cogliere quel “momento decisivo” in cui il velo della finzione opposto dal soggetto si squarcia lasciando intravvedere uno scampolo di verità. La stessa verità svelata da Frida nei suoi autoritratti, che seduce i nostri occhi prima della nostra mente e ci coinvolge fino al punto di avviare una ricerca dentro di noi che ha un approdo narrativo. Scopriamo infatti, in questo faccia a faccia con i ritratti di Leo Matiz, un’inaspettata familiarità con noi stessi, capace di fissare in un istante la commedia e il dramma umano che ci portiamo dentro. John Berger ne E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto dimostra che per “vedere” bisogna non temere di lasciarsi mutare dal proprio oggetto di osservazione e di desiderio. Queste fotografie ci raccontano tanto di Frida Kahlo e tanto di Leo Matiz, del loro tempo eloquente di grandi passioni e di grandi ideali e, se siamo disposti ad ascoltare, ci consegnano il riverbero di quella felicità lontana nella nostra epoca delle “passioni tristi”. Franco Carlisi

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